Massimo Moratti sta lasciando in queste ore l'Inter nelle mani del magnate indonesiano Erick Thohir. L'aveva presa il 25 febbraio 1995 e qualche tempo dopo (metà aprile) rilasciò una delle sue prime interviste al collega del Guerin Sportivo Carlo Felice Chiesa. Sono in tanti quelli che in queste ultime settimane hanno abbozzato bilanci sulla seconda fortunata presidenza nerazzurra della famiglia Moratti (il padre Angelo resse il timone dal 1955 al 1968). Giudizio che noi consegnamo alla lettura di quelli che, 18 anni fa, erano i progetti del Massimo Leader che entrava nel calcio. A voi decidere in che misura sono stati portati avanti.
Massimo Moratti racconta al Guerino come sarà la sua Inter
PAZZA IDEA
«Stiamo costruendo una squadra competitiva in grado di durare a lungo.
Non senza un pizzico di follia (Cantona) e con un rapporto rivoluzionario
con i tifosi». I piani di mercato
MILANO. La passione nerazzurra del tifoso di lungo Corso (che nostalgia), la lucidità e il mestiere di chi è abituato a maneggiare il pallone come certe antiche porcellane, tanto splendide quanto delicate. Massimo Moratti scalda un affetto viscerale, nel crogiuolo del suo aplomb britannico-meneghino, in cui guizzano vivide le fiamme di un forte senso del ceppo familiare, legato a doppio filo ai colori dell'Inter. «Per vent'anni» riconosce «si è parlato del mio avvento in società, e non c'era nulla di concreto. Poi si è stretto al collo il laccio dei tifosi e dei giornali, assieme a quello della passione, e in cinque giorni ho preso la decisione». A due mesi di distanza, l'entusiasmo non è arretrato di un millimetro, sospinto anzi dalla promettente risposta della squadra, e non si fa fatica a comprenderlo dialogando con questo nuovo protagonista del nostro calcio. Un uomo già pienamente calato nella parte un po' folle e un po' manageriale che si è scelto per onorare una sorta di tacito patto con la memoria ancora vivissima di suo padre, grande e discreta come chi la ispirò. L'Inter di Angelo Moratti non è ingenuo miraggio: «Conosco le difficoltà del calcio, so quanto sia problematico vincere uno scudetto, dunque non mi faccio illusioni e sono convinto che non se ne facciano neppure i tifosi. Li ho "sentiti" molto, in questo periodo, e mi ha entusiasmato non solo il loro calore, ma anche l'intelligenza che lo pervade: vogliono uno sforzo progettuale, una squadra competitiva destinata a durare, non i soldi buttati dalla finestra per subito e comunque».
Quindi come vi state muovendo?
«Io imposto il discorso Inter come un programma, che peraltro non esclude qualche pazzia, indispensabile per costruire una grande squadra. Se vogliamo, il discorso Cantona rientra in quest'ambito, anche se poi non è folle ma saggia la necessità della personalità e della qualità di giocatori di questo genere».
Già, Cantona. Grandissimo tecnicamente, ma altamente rischioso. A quale condizione il rischio diventa accettabile?
«Il destino di ognuno di noi è legato ai comportamenti nelle varie situazioni. Cantona certo non aveva mai programmato in passato di compiere le azioni che sappiamo, certo non lo programmerà nemmeno adesso. Per ora mi basta che abbia il desiderio, la volontà, l'impegno di rifarsi. Ha vissuto un'esperienza talmente negativa, per quest'ultima sua reazione sul terreno di gioco, che certo ne beneficerà la sua professionalità. Io lo guardo da un punto di vista calcistico: Cantona è un ottimo giocatore, per il resto sarà anche responsabilità della società oltre che sua mantenere il suo rendimento su binari di continuità e correttezza».
Potrebbe rivestire per voi Moratti il ruolo affettivo che un tempo fu di Mario Corso?
«Ne parlavo proprio in questi giorni con i miei collaboratori: se io trovassi in giro per il mondo un giovane con la fantasia, l'imprevedibilità e la classe di Mario Corso, certamente punterei decisamente su di lui. Questo si deve a un "vizio", cioè dall'aver visto Corso, che è stato per noi il divertimento e il genio, oltre a un giocatore di validità complessiva straordinaria. Cantona ha dentro un po' di tutto questo: non è paragonabile a Corso come tipo di gioco, ma come qualità è a livello internazionale e possiede l'imprevedibilità che fa sentire il pubblico soddisfatto di aver pagato il biglietto. Sempre che giochi, ovviamente, cioè che non si faccia squalificare dal primo minuto...».
Per restare in tema. Bergkamp è una specie di labirinto. Lei ha trovato la bussola per orientarvisi?
«Già adesso mi sembra che la bussola stia funzionando un po' meglio: Bergkamp sta dando sotto il profilo del carattere una prova molto migliore rispetto a prima. Noto il suo impegno e anche da un punto di vista morale lo vedo più legato alla società, più desideroso di esprimersi. Da un punto di vista sostanziale, cioè in campo, sta mostrando parecchio di più: ha spunti di grande classe, anche se c'è bisogno ancora, e se ne deve rendere conto pure lui, di una maggiore continuità. Di qui alla fine della stagione prenderemo una decisione sul suo futuro: ovviamente assieme a lui, che è un ragazzo e un professionista intelligente».
Lei da tifoso che idea si è fatto sulla "maledizione Inter" di questi anni, ogni grande acquisto immancabilmente trasformato in campo in una delusione?
«È difficile parlare degli errori di mercato degli altri, tra l'altro per scaramanzia devo astenermene, perché certamente capiterà anche a me di commetterne. A me sembra importante soprattutto il "clima" dell'Inter. L'ho detto riportando le mie impressioni di spogliatoio la domenica che per la prima volta vi ho fatto ingresso ufficialmente: i giocatori mi erano sembrati tristi, senza la soddisfazione di fare il loro mestiere. Un fatto non certo dovuto a Pellegrini, che ha lavorato molto e speso tanti quattrini, ma al fatto che probabilmente si era creata quasi una situazione di abitudine al peggio, una sorta di fatalismo: le cose vanno male? Beh, in fondo il tempo passa, prima o poi sarà finita questa brutta esperienza. Col mio arrivo è cambiato il fattore psicologico, determinante d'altronde in ogni attività della vita, che ha aiutato i giocatori a rendere di più».
Paradossalmente la recente vistosa rivalutazione del parco giocatori non vi complica le cose?
«È un fatto comunque altamente positivo. Io d'altronde non ho mai avuto l'intenzione di fare tabula rasa, perché sarebbe stata una pazzia economica e la stessa scelta di prendere l'Inter significava che non nutrivo certo sfiducia nel parco giocatori. Certo, oggi c'è la necessità di completare la rosa, per un miglioramento qualitativo generale, del che si rendono conto gli stessi giocatori. Poi ovviamente possiamo anche sbagliare: il bello del calcio è che si dicono tanto cose, poi quando si va in campo si scoprono errori imprevedibili e inaspettati».
Torniamo allora al mercato. Dopo quello di Cantona, si fanno i nomi "sicuri" di Benarrivo e Ganz.
«C'è stato un interessamento nei confronti di molti giocatori, poi, in dipendenza della valutazione del relativo club e di eventuali diverse opportunità nate nel frattempo, qualche pista è stata abbandonata e altre invece vengono tuttora perseguite. Sto cercando di affrontare questi discorsi in termini moderati e prudenti sul piano economico, perché sfasciare finanziariamente la società per giocare bene a pallone è forse la cosa peggiore. Punto a due obiettivi: mantenere economicamente forte il club e avere una risposta positiva ma anche progettuale a lungo termine sul piano tecnico».
Vogliamo fare qualche nome?
«Io spero che arriveremo a concludere con Ganz, che mi sembra un ragazzo validissimo e utilissimo: il nostro problema è forse quello del gol e fino ad ora lui non l'ha proprio avuto. Di Cantona già sapete, ora stiamo lavorando per rafforzare il centrocampo».
E per cercare un terzino sinistro.
«Il terzino sinistro è ciò che più serve all'Inter, ma anche il pezzo più difficile da trovare, perchè in Italia ci sono Di Chiara, Benarrivo e poco altro. Sapendolo, la società che li vende li valuta di conseguenza, rendendone praticamente impossibile l'acquisto, estremamente caro. Tanto più che il Parma non ha intenzione di cederli. Possiamo allora orientarci su elementi più giovani, correndo i relativi rischi».
Oppure c'è il famoso argentino Zanetti...
«Certo, si può guardare all'estero, ma per me lo straniero deve essere un attaccante. Il giocatore estero affascina se appartiene al reparto offensivo».
Capitolo allenatore. In cima alla lista, Ottavio Bianchi.
«Per due ragioni. La prima è professionale: lo considero un uomo intelligente che sta dando risultati notevoli. La seconda è pratica: guardandomi in giro non ho ancora capito quale possa essere la soluzione più adatta all'Inter».
Allora non è vero che telefona spesso a Tabarez...
«Non ho questa abitudine con nessuno, il telefono è un oggetto... disperato che già perseguita me. E poi voglio partire con il piede giusto, dunque contatterei prima le società e non i singoli. Tabarez resta nella lista dei candidati, però voglio sottolineare che se una persona viene all'Inter deve farlo con grande entusiasmo, è questo soprattutto l'aspetto che valuterò».
Lei ammira Zeman e Sacchi. Un orientamento "filosofico"?
«No. Io faccio fatica a contare in campo fino a undici per verificare un 4-4-2 piuttosto che un 4-3-3. Tanto più che caso mai per un fatto scaramantico o di ricordi personali sono più legato al gioco a uomo. Di Zeman mi è sempre piaciuta la velocità e l'aggressività della sue squadre, anche se soprattutto ora mi rendo conto dei pericoli di un certo tipo di tattica per una squadra che punti a grandi traguardi. Di Sacchi ammiro la professionalità, è un uomo che vive di calcio e ne ha quindi una conoscenza piena. Il fatto che lo ammiri però non significa che lo prenderei all'Inter».
E Trapattoni?
«È un uomo che ha dimostrato grande coraggio affrontando l'avventura tedesca e ha dato molto anche all'Inter. Però punta alla lunga alla Nazionale e che l'Inter possa essere un intervallo Fra la Germania e la squadra azzurra non è proprio la cosa che mi piace di più».
Corso, Facchetti, Mazzola, Suarez: cosa possono dare tanti "ex" alla società nerazzurra?
«Sono quattro persone con cui ho mantenuto nel tempo un rapporto molto stretto: ne conosco la linearità, l'attaccamento all'Inter, l'amicizia con la famiglia. Sono dunque persone di fiducia e che professionalmente vantano doti specifiche importanti. Finora sono stati per me utilissimi e mi è stato di grande aiuto l'entusiasmo con cui hanno affrontato questa avventura».
Non si corre il rischio di qualche screzio?
«Lo si corre sempre, se li avessi presi uno da Istanbul e l'altro da Amsterdam sarebbe lo stesso. Spesso le concorrenze servono a fare meglio».
Dagli anni Sessanta a oggi è diventato più complicato organizzare una società?
«Oggi i club devono dotarsi, come alcuni hanno già fatto, di un tipo di comunicazione molto più facile, diretta, in una parola, informatica. Cambia anche il rapporto con i tifosi, che devo dire di avere ritrovato a trent'anni di distanza molto stantio. Oggi il rapporto tra la società e gli Inter Club deve cambiare: dobbiamo renderli più partecipativi, più utili alla società, tenendoli informati e facendosene informare in tempo reale: insomma, considerandoli vere e proprie parti di un club centrale. Devono diventare osservatori di giocatori e anche altro: ogni club deve trasformarsi in una piccola Inter».
Cosa promette ai tifosi per il 95-96?
«Un'Inter che sia protagonista, un'Inter che funzioni bene e magari sia capace di andare oltre le nostre stesse ragionevoli speranze».
Carlo F. Chiesa
Tratto del Guerin Sportivo n.15 - 12/18 aprile 1995
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