Obiettivo calcio

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martedì 14 gennaio 2014

La Storia del Mondiale - 1934 Italia




Nelle foto, il manifesto del Mondiale e l'ingresso degli azzurri nella prima gara del Mondiale contro gli Stati Uniti.

Inizia la leggenda azzurra dei ragazzi di Vittorio Pozzo

L'8 ottobre del 1932, in occasione del ventunesimo congresso della Fifa, l'Assemblea assume la decisione di assegnare alla Federazione Italiana Giuoco Calcio l'onere di organizzare la seconda edizione della Coppa del Mondo di calcio. La scelta dei delegati riuniti nella capitale svedese cade all'unanimità sull'Italia: non solo per l'effettiva fiducia sulle capacità della nostra Figc, ma anche perché l'unica concorrente, la Svezia, aveva ritirato la propria candidatura. Già da qualche anno l'ente calcistico italiano si era dotato di una struttura molto efficiente: alla sua guida erano l'avvocato Giovanni Mauro e l'ingegnere Ottorino Barassi, due dirigenti affiatati che formavano una coppia di assoluto livello mondiale. A capo della Federazione era Leandro Arpinati, gerarca di regime e podestà di Bologna: cadde in disgrazia nel 1933 a causa di una querelle con Achille Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista e braccio destro del Duce. Al suo posto, salì allo scranno più alto un militare, il generale Giorgio Vaccaro, massimo dirigente del CONI. Questo gruppo di politici e tecnici aveva dato vita a un'attività quasi frenetica: i campionati (la Serie A a girone unico era stata creata nel 1929) giravano a pieni motori, le Nazionali giocavano e vincevano in continuazione, gli stadi sorgevano come funghi un poco ovunque e il pubblico accorreva numeroso agli appuntamenti di rilievo e non. In vista del Mondiale, il fascismo non lesinò energie e denari per dare al mondo un'immagine di sé che potesse lanciare l'Italia nell'arengo delle grandi potenze internazionali. Vennero edificati dal nulla altri stadi, specie in quelle città che più ne avevano bisogno; il sistema dei trasporti fu modernizzato e migliorato sotto ogni aspetto; furono concesse esenzioni fiscali agli organizzatori, in maniera che il bilancio fosse sgravato dai balzelli tributari; si istituirono lotterie di ogni tipo, che oltretutto diedero un lavoro a centinaia di giovani. Di fronte a una tale situazione, Mauro e Barassi si resero conto che fallire sarebbe stato impossibile: i due, astutamente, misero tuttavia le mani avanti dichiarando che era doveroso mettere in preventivo un eventuale deficit finanziario della manifestazione. In questa maniera, si pararono le spalle in caso di insuccesso e spinsero ancor più il regime a occuparsi delle cose del pallone per scongiurare il pericolo di una brutta figura agli occhi del mondo non totalitarista.
La perseveranza dell'accoppiata di dirigenti più lungimirante che il calcio italiano abbia mai avuto, si rivelò preziosa: al termine della competizione, i libri contabili presentarono un attivo di 3.600.000 lire, cifra astronomica per l'epoca. La stabilità del governo contribuì in maniera determinante a far sì che tutti i progetti approdassero a un felice epilogo: insomma, una cornice ideale affinché la seconda Coppa del Mondo potesse svolgersi secondo i sani principi del nazionalismo più spinto. il fronte del calcio giocato presentava un insieme abbastanza variegato di componenti. Innanzitutto, non prese parte al Mondiale la detentrice del trofeo, quella "banda oriental" che tanto aveva entusiasmato tra il 1924 e il 1930. Le motivazioni dell'assenza degli uruguaiani furono molteplici, e il discorso legato alla mancata partecipazione delle selezioni europee alla Coppa di quattro anni prima non fu altro che un pretesto per abbandonare il campo senza dover perdere la faccia di fronte agli avversari. in realtà, le vere ragioni del "gran rifiuto" erano legate a doppio filo ai problemi sorti in Sudamerica con l'avvento del professionismo. Anche qui, come in ogni altra faccenda riguardante il football, i britannici erano arrivati anni luce prima degli altri: già negli anni Ottanta del secolo precedente il nuovo status era stato riconosciuto ufficialmente, creando le basi per la nascita di uno sport che andava oltre i confini del gioco puro e semplice. Sul Continente, parecchi anni erano trascorsi prima che il dilettantismo integrale venisse abbandonato: era il periodo dell'amateur di comodo, il cosiddetto "marron", che viveva come professionista mascherato grazie a eccezionali rimborsi spese e condizioni di favore sul versante la vocativo extra calcistico. A metà degli anni Venti, un po' tutti i paesi si convertirono alle necessità venutesi a creare con l'enorme dilatarsi degli interessi attorno al pallone. In Italia, le prime avvisaglie si erano verificate con il famoso "caso Rosetta", il giocatore della Pro Vercelli ingaggiato dalla Juventus dietro lauto compenso alla società e al giocatore stesso. Di lì a poco, la moda prese piede: il motto decoubertiniano "l'importante è partecipare" cadde presto in disuso e i soldi divennero il principale veicolo pubblicitario del mondo del calcio. A Vienna, Austria, Rapid e Admira monopolizzarono il campionato cittadino (che era comunque anche quello nazionale) prelevando dai piccoli club i migliori elementi: i vari Sindelar, Gschweidl, Sesta, Schall, Viertl e Schmaus si ritrovarono così a giocare insieme non solo in nazionale ma pure ogni giorno, impedendo la polverizzazione delle energie in più di tre o quattro squadre. In Cecoslovacchia, il problema non si poneva. Da sempre, infatti, l'attenzione e il tifo degli appassionati si erano riversati sulle due compagini di maggior lignaggio e tradizione: Sparta e Slavia. Con la sola eccezione di una parentesi del Viktoria Zizkov (altra formazione praghese), esse si erano suddivise i titoli nazionali sin da quando era stato istituito il campionato. Oltre a ciò, biancorossi e biancoblù incarnavano pure la rappresentativa boema fornendo undici giocatori su undici alla squadra. Stesso discorso per Budapest e l'Ungheria: conclusasi la straordinaria parabola dell'MTK (che aveva dominato ininterrottamente dal 1914 al 1925) e del suo formidabile cannoniere Imre Schlosser (che, appese le scarpette al chiodo, si era impiegato al Comune di Budapest, venendo successivamente arrestato dalle autorità filo-naziste per avere fornito documenti falsi ad alcuni perseguitati politici di origine ebraica), la palma di più forte squadra veniva distribuita fra Ferencvaros e Ujpest, con qualche inserimento di Hungaria (l'ex MTK) e III Kerulet, la formazione di uno dei quartieri più poveri della capitale danubiana. 
Un passo indietro, parlando delle defezioni sudamericane. È lecito considerare mancante anche il futebol argentino, in quanto alla Coppa del Mondi presero parte calciatori di terza e quarta schiera. I grandi del Rio de la Plata rimasero a casa per due motivi: prima di tutto, i club non appoggiarono per nulla la partecipazione al Mondiale, per non dover ripetere la triste esperienza accaduta loro nell'edizione precedente. Già in seguito all'Olimpiade di Amsterdam 1928, i "crack" erano stati corteggiati e infine fatti allontanare dal Sudamerica dai potenti club italiani, che pescavano a piene mani negli organici di River Plate, Boca Juniors e Independiente a prezzi abbastanza contenuti e quindi abbordabili per molte tasche. In secondo luogo, essi avrebbero dovuto privarsi dei propri assi per oltre un mese, giusto nel pieno della stagione di campionato. In Argentina (o meglio, a Buenos Aires), il professionismo era stato introdotto nel 1932, con la creazione della LPF (Liga Professional de Futebol), una sorta di lega di eccellenza cui si erano affiliati i club più ricchi e seguiti della attuale Capital Federal. Data la situazione vigente in Brasile e Uruguay, essi avevano attirato l'attenzione dei migliori calciatori di queste nazioni confinanti, che fino a quel momento avevano vissuto ancora in un mondo ancorato all'amateurismo. E così i vari Domingos, Nasazzi, Castro, Dorado, Garcia e compagnia bella, si erano trasferiti in Argentina per spiccare succulenti ingaggi in denaro ed enorme facilitazioni a ogni livello. In questo modo, l'unica federazione biancoceleste associata alla Fifa era rimasta l'AFA, che riuniva nel suo grembo solamente i club di seconda e terza divisione. Essa non volle rinunciare all'opportunità che le veniva regalata su un piatto d'argento e iscrisse al Mondiale una propria formazione, basata appunto su calciatori di scarse qualità. Ma tanto per non cambiare, anche questi dilettanti purissimi furono seguiti dalle nostre società e il terzino Devincenzi, il solo a mettersi in mostra nell'unica gara disputata dalla sua Nazionale, venne ingaggiato dall'Ambrosiana Inter, dove rimase per qualche anno prima di tornare alla compagine d'origine. 
E gli azzurri? Dopo la straordinaria vittoria nella Coppa Internazionale (primo torneo) del 1930, Vittorio Pozzo si era trovato alle prese con i problemi del ricambio generazionale. I vecchi Baloncieri, Libonatti, Rossetti e soci erano troppo logorati fisicamente per poter continuare a offrire l'eccelso apporto che avevano garantito fino alla chiusura del decennio precedente. Fortuna volle che nel 1931 si aprisse il favoloso ciclo juventino, fatto di cinque scudetti e soprattutto di una squadra superba, ricchissima di talenti in ogni ruolo. La difesa dava ancora ampie garanzie: oltre al trio Combi-Rosetta-Caligaris, stavano emergendo nomi nuovi come il portiere Ceresoli, i terzini Monzeglio e Allemandi e i mediani Pizziolo e Bertolini. Della vecchia guardia sopravvisse Attilio Ferraris IV, "er core de Roma", che Pozzo ripescò proprio alla vigilia del Mondiale ricostruendolo nel fisico e nel morale dopo l'allontanamento dalla file della Roma per questioni disciplinari. L'uomo in più, a ogni modo, si chiamò Luisito Monti. Venne in Italia portato da Renato Cesarini quando in patria era ormai considerato una scarpa vecchia: il San Lorenzo de Almagro voleva scaricarlo per forza e impiegò meno di un minuto a decidere della sua vendita. Presentatosi in Italia grasso come un bue, stupì tutti per l'applicazione negli allenamenti e per la serietà con cui si poneva all'interno della squadra. La Juventus, con lui, aveva trovato un nervo indispensabile: Pozzo se ne accorse immediatamente e lo convocò presto in Nazionale facendone un punto fermo tra gli azzurri. A centrocampo, la saggezza tattica di Giovanni Ferrari non poteva trovare eguali, così come la maestria offensiva di Giuseppe Meazza, ancor giovane ma idolo delle folle di mezza Europa. In attacco, inamovibili Orsi e Schiavio, Pozzo pescò il jolly in Enrique Guaita, ennesimo oriundo argentino, ottimo sia come rifinitore dalle fasce che come goleador. Il nucleo era praticamente composto quando l'11 febbraio del 1934, a quattro mesi scarsi dal Mondiale, le certezze del Commissario tecnico subirono un colpo mortale con la sconfitta a Torino nei confronti dell'Austria di Hugo Meisl. Sebbene il punteggio (2-4) non fosse stato estremamente severo con l'Italia, il gioco messo in opera dai nostri lasciò tutti gli osservatori sbigottiti per le difficoltà di costruzione della manovra e la grande remissività palesata di fronte a un avversario non certo aggressivo. Pozzo corse ai ripari, facendo affidamento suo propri principi di vecchio alpino: lavorò incessantemente sulle condizioni psicologiche dei suoi ragazzi, plasmò un gruppo di uomini uniti e pronti a tutto, modificò l'atteggiamento smaccatamente difensivo di alcuni. Operando in tale direzione, si ritrovò tra le mani una sorta di blocco perfettamente cementato in tutte le sue componenti, che nemmeno l'infortunio in extremis del portiere titolare Ceresoli poté intaccare. 
La grande favorita del torneo venne indicata nell'Austria, il mitico Wunderteam che aveva girato l'Europa in lungo e in largo a dettar legge su tutti i campi. Il soprannome della cmpagine era stato creato qualche anno prima, quando di fronte ai delegati della Fifa riuniti a Berlino in Congresso, l'Austria aveva entusiasmato la platea rifilando sei gol alla malcapitata Germania. Prima calciatore, poi arbitro e quindi tecnico sopraffino, Meisl era una vera e propria miniera di calcio, al pari di Vittorio Pozzo: tra i due esisteva un rapporto che andava oltre quello consueto fra colleghi-avversari. In copia si recavano sui vari campi dove venivano disputate le partite internazionali, in Inghilterra per aggiornarsi professionalmente sulle novità tattiche d'Oltremanica, in Sudamerica per apprendere i segreti dei ritmi rioplatensi e brasiliani. Pochi giorni prima dell'inizio delle ostilità, due notizie scossero l'ambiente degli addetti ai lavori: prima l'Ungheria a Budapest e quindi la Cecoslovacchia a Praga avevano sconfitto con il medesimo punteggio di 2-1 la Nazionale inglese in tournée nella Mitteleuropa. A questo punto, un posto d'onore si doveva riservare automaticamente anche alle altre due formazioni danubiane: la rosa, già comprendente Italia, Austria e Brasile, si arricchiva così di nuove pretendenti. Senza dimenticare poi l'outsider di sempre, la Spagna di Ricardo Zamora Martinez, prima compagine extra-britannica ad aver imposto la propria legge ai bianchi maestri (Madrid 1929, 4-3 per le Furie Rosse).
Tutto fu pronto a fine maggio: l'ultima arrivata fu la selezione statunitense, che mise fuori il Messico nello spareggio disputato direttamente in Italia. Furono proprio i nord-americani a tenere a battesimo la Nazionale italiana all'esordio nella Coppa del Mondo. E la prima partita chiarì subito quale fosse la portata tecnica della squadra di Pozzo.                              

Il ricordo di chi c'era
Alberto Marchesi è nato nel 1909 e ha iniziato la sua attività giornalistica negli anni Trenta collaborando con il quotidiano Il Littoriale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale comincia a scrivere per il Giornale d'Italia, commentando dalla sede romana i risultati dei Giochi Olimpici del 1948 e del 1952. Diventa poi inviato speciale, prestando servizio per oltre trent'anni al Corriere dello Sport. Nel corso della carriera Marchesi ha vinto diversi premi, fra i quali il "Saint Vincent", la "Penna d'oro per lo sport" del Coni, il premio "Sport-Umanità" e il "Gran Simpatico". Soprannominato dai colleghi "Er simpatico", è scomparso nel dicembre 1989. Questo il suo racconto del Mondiale 1934, scritto per il Guerin Sportivo.

Un sogno finito in festa


Nella foto, il Ct Vittorio Pozzo portato in trionfo dai giocatori della nostra Nazionale dopo la finale vinta.

Millenovecentotrentaquattro: una vita di ricordi dietro le spalle. Sfogliare nell'archivio della memoria, per riportare alla luce del presente episodi e immagini così lontani nel tempo, non è cosa facile. Ma anche la memoria di un ottuagenario può rivelarsi feconda quando il ricordo significa qualcosa di importante, vissuto in prima persona. Qualcosa come, ad esempio, la splendida vittoria dell'Italia ai Mondiali di calcio del 1934. Fu il primo, quello, dei tre trionfi azzurri (quando Marchesi scrive, l'Italia non aveva ancora vinto il titolo del 2006, ndr). E probabilmente fu anche il più bello (opinione del tutto personale) in quanto l'Italia, partita come "outsider", riuscì nella non facile impresa di battere nazioni sulla carta ben più qualificate. Per il mio fraterno e compianto amico Fulvio Bernardini - avversario in gioventù in interminabili partite di calcio al Colosseo (Fuffo abitava in via Capocci, poco distante da casa mia) -, l'Italia che vinse nel 1934 era di classe superiore a quella che avrebbe bissato il titolo quattro anni più tardi. Fulvio, grandissimo giocatore prima e grandissimo tecnico dopo, aveva ragione. La classe e l'esperienza di quella squadra erano immense, a dispetto della non più verdissima età di atleti quali Combi, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini e Orsi: tutti sulla trentina e passa. Si disse anche che l'Italia fu avvantaggiata da arbitraggi favorevoli. Ma nessuno ha mai messo in dubbio la legittimità di quella vittoria, desiderata a tutti i costi da giocatori di enorme spessore tecnico e agonistico. A quei tempi (ero un giornalista di timidissime speranze) lavoravo nell'Organizzazione della Lotteria di Tripoli, abbinata alla famosa corsa automobilistica che si disputava sul circuito della città libica. Era tuttavia allo sport agonistico che dedicavo le maggiori attenzioni. Nel 1934 avevo già un discreto passato di calciatore: avevo militato nei "boys" del glorioso Roman Football Club, a quell'epoca la società più ricca della Capitale. Nel 1927, l'anno che segnò la fusione fra Roman, Alba, Fortitudo, Unione Sportiva Romana e Audace, con la conseguente nascita della Associazione Sportiva Roma, giocavo nelle riserve della neonata compagine giallorossa allenata dall'inglese Garbutt. Venne poi la passione per la palla ovale, premiata con lo scudetto vinto con la casacca del Rugby Roma. Sono stati questi i due sport, assieme al canottaggio e alla canoa, ad accompagnarmi nella lunga milizia giornalistica. Chiusa la parentesi personale, torno alla finale fra Italia e Cecoslovacchia. Quella mattina partii a piedi da via Baccina, dove abitavo, con i miei fratelli Carlo e Mario. Piazza Venezia, via del Corso, Piazza del Popolo sino alo stadio del PNF, l'attuale Flaminio. Non riuscii a ottenere un accredito stampa, così pagai, se ben ricordo, qualcosa come dieci lire per un posto nei distinti. I mass media - giornali e radio - pubblicizzarono con dovizia di mezzi l'avvenimento. Lo stesso Dice presenziò alla partita comprando "simbolicamente" il biglietto. Malgrado il gesto di Mussolini, non ci fu il tutto esaurito, anche se il colpo d'occhio all'interno dello stadio fu ugualmente di grande effetto. Ricordo gli articoli, copiosi, della stampa sportiva dell'epoca: Il Littoriale, La Gazzetta dello Sport e il Guerin Sportivo, con i famosi disegni di Carlin Bergoglio. Del Guerino mi sovvengono le feroci polemiche a distanza con il Tifone di Roma, sempre a proposito di calcio, naturalmente. La partita fra Italia e Cecoslovacchia. come peraltro riportano le cronache del tempo, fu drammaticamente bella e si concluse ai tempi supplementari. La squadra boema, che sino ad allora non aveva entusiasmato, si dimostrò pericolosissima. Cambal, Svoboda, Sobotka, gestivano con grande sapienza tattica il formidabile collettivo. Sugli spalti cominciammo a preoccuparci seriamente poiché i cechi misero a dura prova l'abilità di Combi e del pacchetto difensivo. Poi, improvvisamente, il gol di Puc gelò lo stadio. Fu a quel punto che gli azzurri si scatenarono. Orsi pareggiò su azione personale e ai supplementari Schiavio scagliò il proprio bolide di esterno destro che piegò le mani di Planicka. Il pubblico, che aveva seguito con trepidazione la lunghissima e appassionante contesa, manifestò sugli spalti la propria gioia. Un epilogo ovvio per quella sofferta ma meritata vittoria, che dettava una pagina storica per il calcio azzurro. Lunghi cortei, a partita conclusa, sfilarono a piedi lungo la via Flaminia dandosi un festoso appuntamento a Piazza del Popolo. Il tifo, nella sua versione più autentica e non deviante di genuina partecipazione, è rimasto lo stesso. Striscioni, cori, entusiasmo, slogan, caroselli (con le dovute proporzioni del traffico…) e via dicendo, non hanno età. Tutto si svolse, naturalmente, senza incidenti: il triste fenomeno della violenza non era ancora nato. Ultras e affini erano - durante il Regime - una specie pressoché sconosciuta: le sporadiche bravate potevano costare caro allo scalmanato di turno, in quanto la polizia, in quei giorni, non andava certo per il sottile. Fu un grande spettacolo di calcio, per il quale vale davvero la pena poter dire «c'ero anch'io». Alberto Marchesi

I RISULTATI

Ottavi di finale

27-5-1934 - Firenze
Germania-Belgio 5-2
26' Kobierski (G), 31' e 43' Voorhoof (B), 47' Siffing (G), 67', 70' e 86' Conen (G)
27-5-1934 - Roma
Italia-Stati Uniti 7-1
18' e 29' Schiavio (I), 20' Orsi (I), 57' Donelli (S), 63' Ferrari (I), 64' Schiavio (I), 69' Orsi (I), 90' Meazza (I)
27-5-1934 - Torino
Austria-Francia 3-2 dts
19' Nicolas (F), 44' Sindelar (A), 94' Schall (A), 96' Bican (A), 114' Verriest (F) rig.
27-5-1934 - Bologna
Svezia-Argentina 3-2
3' Belis (A), 8' Jonasson (S), 47' Galateo (A), 67' Jonasson (S), 79' Kroon (S)
27-5-1934 - Napoli
Ungheria-Egitto 4-2
12' Teleki (U), 31' e 52' Toldi (U), 39' e 67' Fawzi (E), 59' Vincze (U)
27-5-1934 - Milano
Svizzera-Olanda 3-2
14' e 43' Kielholz (S), 22' Smit (O), 64' Abegglen III (S), 87' Vente (O)
27-5-1934 - Genova
Spagna-Brasile 3-1
18' Iraragorri (S), 27' e 77' Langara (S), 56' Leonidas (B)
27-5-1934 - Trieste
Cecoslovacchia-Romania 2-1
10' Dobay (R), 49' Puc (C), 67' Nejedly (C)

Quarti di finale


Nella foto, Angelo Schiavio e Giuseppe Meazza, stelle dell'Italia.

31-5-1934 - Bologna
Austria-Ungheria 2-1
5' Horvath (A), 53' Zischek (A), 67' Sarosi I (U)
31-5-1934 - Firenze
Italia-Spagna 1-1 dts
29' Regueiro (S), 44' Ferrari (I)
1-6-1934 - Firenze (ripetizione)
Italia-Spagna 1-0
11' Meazza
31-5-1934 - Milano
Germania-Svezia 2-1
60' e 63' Hohmann (G), 83' Dunker (S)
31-5-1934 - Torino
Cecoslovacchia-Svizzera 3-2
18' Kielholz (S), 24' Svoboda (C), 48' Sobotka (C), 71' Abegglen III (S), 83' Nejedly (C)  

Semifinali


Nella foto, il gol di Guaita che decise a favore dell'Italia la semifinale contro l'Austria.

3-6-1934 - Milano
Italia-Austria 1-0
21' Guaita
3-6-1934 - Roma
Cecoslovacchia-Germania 3-1
21', 60' e 81' Nejedly (C), 50' Noack (G) 

Finale 


Nella foto, Italia schierata prima dell'inizio della finale. In piedi da sinistra: Combi, Monti, Ferraris IV, Allemandi, Guaita, Ferrari; accosciati: Schiavio, Meazza, Monzeglio, Bertolini, Orsi.

10-6-1934 - Roma
Italia-Cecoslovacchia 2-1 dts
Italia: Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari, Orsi.
Cecoslovacchia: Planicka, Zenisek, Ctyroky, Kostalek, Cambal, Krcil, Junek, Svoboda, Sobotka, Nejedly, Puc.
Arbitro: Eklind (Svezia). 
Reti: 70' Puc (C), 80' Orsi (I), 95' Schiavio (I).






Nelle foto, dall'alto: il gol di Schiavio che decise la finalissima e le copertine di vari giornali dell'epoca che celebrarono il trionfo azzurro.





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