Obiettivo calcio

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mercoledì 9 aprile 2014

La Storia del Mondiale - 1938 Italia



I Leoni di Highbury si confermano sul tetto del mondo

La rosa della Nazionale italiana che partecipò al Mondiale 1938

Nel quadriennio che intercorre fra la seconda e la terza edizione della Coppa del Mondo, numerosi avvenimenti modificano radicalmente lo schermo su cui si proiettano le gesta degli eroi della domenica. Sino a quel momento il "superiority complex" connaturato nella mentalità degli inventori del calcio moderno, aveva loro impedito di giungere a misurarsi contro "i poveri mortali" in competizioni ufficiali. Ciò non aveva azzerato la volontà dei continentali di affrontare i bianchi maestri e di dimostrare loro quale fosse il livello ormai alto del football al di qua della Manica. Gli inglesi erano usciti sconfitti dal terreno di Madrid di fronte alle scatenate "Furie Rosse" nel maggio del 1929. Una battuta a vuoto che se da un lato non era riuscita scalfire la superbia dei britannici, dall'altro aveva ancor più rafforzato la sicurezza degli avversari nei propri mezzi. E fu proprio in quest'ottica che il 14 novembre 1934 gli Azzurri campioni del mondo salirono sino a Londra per sfidare la formazione con i tre leoni sul cuore. Teatro prescelto per la contesa fu lo storico impianto di Highbury, posto nella zona nord della capitale. Un terreno ormai mitico, tempio di quell'Arsenal che aveva iniziato il mondo - sotto l'illuminata guida di Herbert Chapman - all'adozione del "WM", il rivoluzionario sistema di gioco che pose le basi, alla fine degli anni Venti, per una profonda revisione tattica degli schieramenti. La contesa venne presentata nei rispettivi Paesi come la sfida del secolo: e per i tempi cui ci si riferisce, fu sicuramente l'appuntamento più clamoroso e significativo che potesse essere messo in scena. Fu anche il confronto tra le due formazioni più avanzate del periodo: su un fronte i difensori del "metodo", uomini temprati a ogni battaglia e tenaci assertori del gioco ragionato; su quello opposto i paladini del "sistema", che prevedeva un modulo doppiamente nuovo. Il "sistema" consentiva infatti un maggior spiegamento di forse offensive (un centravanti-ariete e due ali aperte sulle fasce ma pronte a chiudere al centro), ma contemporaneamente un fitto rimpolparsi della retroguardia: tre marcatori fissi sull'uomo con la conseguente abolizione dei due terzini, quello "volante" e quello "di posizione". Pochi, sino a quel giorno, avevano osato avventurarsi su campi di gioco britannici e nessuno ne era uscito salvo: nemmeno un pari era stato ottenuto dai temerari che avevano osato sfidare l'Inghilterra a Londra o a Manchester. I quotidiani inglesi, nella loro spavalderia, annunciarono che i beniamini locali avrebbero stravinto: uno di essi azzardò persino il punteggio: 10-0! 
E mai, come in quella occasione, il senso numerico del risultato venne capovolto dal significato morale dei novanta minuti. Nel primo quarto d'ora gli inglesi partirono di slancio, andando a segno ben tre volte con i fuoriclasse Brook (ala sinistra del Manchester City, detto "l'uomo del Nord" e Ted Drake, centrattacco dell'Arsenal inserito all'ultimo momento in squadra in sostituzione del titolare Tilson. Dopo soli tre minuti di gioco l'Italia aveva perso il condottiero della retroguardia, Luisito Monti, infortunatosi in uno scontro con lo stesso Drake. Le successive radiografie mostrarono poi chiaramente che l'oriundo si era procurato una frattura al piede sinistro. Rimasti in dieci uomini, gli Azzurri devono subire la tracotante manovra dei britannici, sfociata appunto nella tripletta del primo quarto d'ora. Già dopo trenta minuti i 60.000 di Highbury si accorgono che ciò che anima gli italiani è un furore davvero sacro, ai limiti dell'umano. Nella ripresa in nostri cominciano a mulinare come degli ossessi, mettendo in serissima difficoltà il reparto difensivo avversario, composto nella quasi totalità da giocatori dell'Arsenal. Nel giro di quattro minuti, fra il 58' e il 62', Giuseppe Meazza strabilia coloro che non lo conoscevano con due superbe realizzazioni, la prima di piede e l'altra di testa, riaprendo il risultato. Nonostante l'inferiorità numerica, il centrocampo azzurri si batte con cuore da leone: Attilio Ferraris IV è il leader del gruppo, Bertolini lo affianca da par suo e Ferrari cuce ogni azione di contropiede. L'altro protagonista della giornata è il portiere Carlo Ceresoli, alla sua seconda presenza in Nazionale, parando un penalty battuto bene da Brook con un plastico volo all'incrocio dei pali sulla propria destra. Al fischio finale i tifosi italiano presenti sugli spalti osannano gli eroi azzurri, uscti dal campo tra mille applausi e con la soddisfazione di aver tenuto in scacco un avversario qualificato per tutto il match.
L'impresa di Highbury dimostrò una volta di più la netta supremazia italiana nei confronti delle altre nazionali mitteleuropee, il cui corollario finale fu il trionfo nel terzo torneo della Svehla Pokal, che permise loro il successo finale nella manifestazione. Al contrario della precedente, quell'affermazione nel torneo a cinque squadre (oltre all'Italia, partecipavano Austria, Cecoslovacchia, Svizzera e Ungheria) fu poco sofferta. Se nel 1930 era stata necessaria la meravigliosa domenica di Budapest (5-0 ai magiari con tripletta di Meazza), in questa occasione non ci fu bisogno di exploit particolari, tanta fu la facilità con cui Vittorio Pozzo condusse i suoi ragazzi al traguardo conclusivo. Con quattro vittorie nelle prime quattro gare, gli Azzurri posero un'ipoteca decisiva sulla Coppa: a cadere di fronte a essi furono Svizzera (due volte), Cecoslovacchia e Ungheria. La prima battuta a vuoto risalì al già citato febbraio 1934 con l'Austria (2-4 a Torino), ma già dall'incontro seguente due reti di Piola al Prater sancirono la conquista del trofeo. Il 24 novembre 1935 cominciò la straordinaria serie positiva della squadra, conclusasi il 12 novembre 1939, cinque anni meno dodici giorni più avanti: una sequenza eccezionale di risultati, condita dal successo olimpico del 1936 e da quello iridato a Parigi del 1938. Solamente la grande Ungheria di Puskas, Hidegkuti e Kocsis, l'Aranycsapat, poté superare questo record all'inizio degli anni Cinquanta. Il calendario pose in programma, nel 1936, le Olimpiadi di Berlino. La Germania hitleriana organizzò i Giochi nel segno della razza ariana: in tutti gli sport l'imperativo era uno solo, vincere l'oro. E quindi, anche nel calcio, questa delicata missione venne affidata ai giovani tedeschi. Da quando la Fifa aveva istituito la Coppa del Mondo, la kermesse a cinque cerchi era notevolmente scaduta di tono:  a essa, per regolamento, avrebbero potuto prendere parte unicamente formazioni composte da calciatori dilettanti. O per lo meno da "non professionisti". Per rispettare le norme vigenti, le nazioni che decisero di iscriversi al torneo dovettero ricorrere ai più disparati artifizi. Il più comune dei quali fu quello di registrare i giocatori come studenti, impiegati o addirittura disoccupati. in funzione del Mondiale del 1938, L'Olimpiade si rivelò fondamentale. Non tanto per il risultato finale in sé, quanto perché a Berlino si poterono individuare le linee di tendenza che avrebbero influenzato la competizione iridata due anni più tardi. La Nazionale italiana, fondata su un nucleo di giovani promesse e di elementi mediocri, attuò una sorta di schema contropiedistico. Alcuni degli pseudo-studenti trionfatori (Foni, Rava, Locatelli) convinsero Pozzo delle proprie qualità al punto che ben presto riuscirono a entrare in pianta stabile nella rosa della prima squadra. 
Nello stesso anno, la Guerra civile spagnola bloccò ogni attività al di là dei Pirenei. Dal 1936 al 1940 a Madrid e Barcellona non si parlò più di pallone: i vari Zamora, Ciriaco e Quincoces, si trovarono improvvisamente tagliati fuori dai circuiti internazionali. Il solo Isidro Langara, implacabile sfondatore di reti militante nell'Oviedo e nella nazionale in maglia rossa, continuò la propria vita calcistica senza soluzione di continuità trasferendosi in Argentina per difendere i colori del San Lorenzo de Almagro. Una formazione che, grazie alle sue reti, balzò in un sol colpo fino ai piani più alti del fútbol rioplatense. A proposito: l'Argentina decise di ritirarsi dal Mondiale nel momento stesso in cui seppe della scelta della Fifa di assegnare l'organizzazione della fase finale della Coppa del Mondo alla Francia. Il ricordo della defezione in massa degli europei aveva convinto i soloni della massima federazione a venir meno al principio di alternanza fra Europa e Sudamerica. Fu questo il primo omaggio a Jules Rimet, padre della Coppa. Sempre al palo l'Uruguay, che non aveva ben digerito il passaggio al professionismo, fu il solito Brasile a tenere alto il vessillo latinoamericano. Per non fallire una terza volta l'obiettivo mondiale, i dirigenti della federcalcio brasiliana spesero ogni energia possibile (e milioni di contos, la moneta in circolazione all'epoca) nell'allestimento della spedizione in terra francese: dall'organizzazione del viaggio alla selezione dei ventidue convocati della rosa iridata. Fortuna aveva voluto che proprio un paio di anni prima fosse stato composto il dissidio intercorrente tra le varie federazioni statali, con quelle - potentissime - di Rio de Janeiro e di San Paolo in prima fila. Flamengo, Vasco da Gama, Palestra Italia (poi ribattezzata Palmeiras quando il governo anti-totalitarista decise di abolire la denominazione d'ispirazione italo-tedesca negli stemmi del club) e São Paulo FC si trovarono finalmente riunite in un'unica bandiera al servizio comune della Seleção. A pochi mesi dall'apertura della competizione conclusiva un drammatico evento mutò il volto tecnico e numerico del torneo. Il clima politico dell'Europa viveva già la contraddittoria realtà che di lì a poco sarebbe sfociata nel secondo conflitto mondiale: le mire espansionistiche del Terzo Reich trovarono così un primo sfogo nell'Anschluss, l'annessione armata dell'Austria, ribattezzata "Östmark" e degradata al rango di semplice "Gau" (distretto o circoscrizione). Vienna, che solamente vent'anni prima era la capitale dell'Impero Asburgico, non rimase più che un capoluogo di regione. Un colpo mortale sferrato all'orgoglio di un popolo i cui figli erano stati geni dell'arte e della scienza. Come d'ovvio, la Nazionale austriaca sparì dalla circolazione e il campionato viennese si trasformò in uno degli innumerevoli gironi del massimo campionato tedesco. I fenomeni militanti in Austria, Admira e Rapid, continuarono a sfidarsi per la supremazia locale con qualche frequente digressione nelle finali per il titolo sovranazionale: fu proprio il Rapid, nel 1941, ad aggiudicarsi lo scudo che premia i "Deutsche Meistern". Alcuni dei componenti il team austriaco finirono con l'innervare la formazione di Sepp Herberger, ma non riuscirono a migliorarne il gioco: loro, abituati da sempre al "metodo", non poterono integrarsi a dovere in una squadra che da ormai un decennio metteva in pratica il "sistema". Per sostituire l'Austria, venne invitata l'Inghilterra, ma i britannici rifiutarono cortesemente l'invito, adducendo a giustificazione il fatto di non avere avuto il tempo di allestire una selezione all'altezza della situazione. Qualche anno prima, nel 1936, era scomparso Hugo Meisl, creatore del "Wunderteam". Chi pianse alla sua morte non poteva sapere che forse era stato meglio così: il Grande Maestro non avrebbe sopportato un tale scempio.

La finale decisa dalla coppia Piola-Colaussi

Per raggiungere il grado di concentrazione necessario per affrontare la finalissima della Coppa del Mondo, Vittorio Pozzo fa ripercorrere ai suoi ventidue ragazzi il cammino inverso a quello precedente la semifinale di Marsiglia contro il Brasile: dalla costa mediterranea, il gruppo azzurro si riporta riporta a St. Germain, tranquillo e ridente quartiere parigino, dove la squadra aveva trovato alloggio nei giorni antecedenti il quarto contro i padroni di casa. La comitiva lascia Marsiglia già la sera stessa della partita contro i sudamericani, muovendosi ovviamente con quell'aereo di linea che era stato già prenotato dai dirigenti brasiliani, convinti in partenza che il veivolo sarebbe stato loro utile per raggiungere la capitale, luogo della gara decisiva. Ancora una volta, l'arroganza verdeoro era stata punita dai fatti, ancora una volta la Seleção vedeva sfumare il sogno. Nel corso della loro storia, Italia e Ungheria si erano già incontrate sedici volte a partire dal 6 gennaio 1911, seconda partita (prima in trasferta) della neonata selezione italiana, che all'epoca vestiva una camiciola bianca, meno costosa rispetto a una qualsiasi colorata. Il bilancio aggiornato parlava in netto favore dei nostri, capaci di imporsi sugli avversari in otto occasioni contro quattro affermazioni dei rivali magiari. Il ciclo positivo per noi, tuttavia, si era aperto solamente nel 1928, quando allo stadio del PNF di Roma il trio d'attacco del Torino Baloncieri-Libonatti-Rossetti aveva trascinato alla vittoria i compagni, dopo un doppio vantaggio magiaro firmato da Kohut e Hirzer. Il successivo successo fu quello, notissimo, dell'11 maggio del 1930 (il ritorno del precedente match valido per la Coppa Internazionale), in cui ebbe magica consacrazione a stella mondiale il nome cristallino di "Balilla" Giuseppe Meazza. A soli vent'anni, Meazza strabiliò il raffinato pubblico di Budapest, abituato ad applaudire geni del pallone come lo stesso Hirzer, Markos e Takacs II. Schierato da centravanti puro, al suo quarto gettone in azzurro il Balilla andò a segno tre volte (una nel primo tempo e due nella ripresa), prima delle reti conclusive di Magnozzi e Faele Costantino. Mai la Nazionale italiana aveva vissuto una giornata tanto gloriosa: non solo la "Svehla Pokal" poteva approdare in Italia; ciò che più contava era il fatto che finalmente il football nostrano aveva reperito al proprio interno le energie e la volontà per andare a dettare legge in casa altrui. i tempi in cui i rossi riuscivano a spadroneggiare sulle nostre formazioni, si erano allontanati e l'ultima vittoria magiara risaliva al 18 gennaio 1925: due a uno con reti di Poldino Conti, Spitz e Takacs II. Tredici anni abbondanti di imbattibili, dunque: non poteva esserci migliore occasione per mantenere fresco questo primato. A proposito di imbattibilità: da ben 22 incontri gli azzurri non conoscevano sconfitta. Dopo la conquista della Coppa del Mondo 1934, la sola Cecoslovacchia era riuscita nell'impresa di superare la compagine diretta da Vittorio Pozzo in quella che venne dipinta come una sorta di rivincita del match di Roma. Da quel giorno Svizzera, la stessa Ungheria, Stati Uniti, Giappone, Norvegia, Austria, la medesima formazione boema, Belgio, Jugoslavia, Francia e Brasile avevano ceduto - spesso con l'onore delle armi - alla dirompente vitalità dell'undici italiano. Solamente l'Inghilterra, nel periodo giugno 1934-giugno 1938, aveva saputo sconfiggere gli azzurri, oltre alla Cecoslovacchia nell'incontro appena ricordato: era accaduto a Highbury, nella leggendaria partita in cui Ferraris IV, Monti e Bertolini avevano fatto delirare la stessa folla londinese. 
Nei tre giorni di attesa, la banda visse in pace e relax a St. Germain e quando si presentò allo stadio di Colombes, nel primo pomeriggio di domenica 19 giugno, i volti erano tutti distesi, sorridenti, improntati alla serenità più spiccata. Dal pullman che li aveva condotti allo stadio, Piola, Colaussi, Meazza e compagnia uscirono alla spicciolata, intrattenendosi con giornalisti, fotografi e curiosi. Al contrario gli ungheresi, consci della difficoltà insita nello scontro che di lì a poco li avrebbe visti protagonisti, scesero dal pullman senza dare corda a nemmeno un addetto ai lavori, rifugiandosi negli spogliatoi almeno due ore prima del fischio d'inizio. Rispetto alla semifinale contro il Brasile, Pozzo mantenne invariato lo schieramento: Olivieri, Foni, Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli, Biavati, Meazza, Piola, Ferrari e Colaussi. Un undici perfettamente collaudato, integrato in ogni reparto da uomini affidabili e capaci di trovarsi praticamente a occhi chiusi. Karoly Dietz dovette invece ricorrere ad altri componenti la "rosa" per allestire la formazione da mettere in campo. Era venuto a mancare il centromediano Turay, sulla breccia da numerosi anni, che si era infortunato nella semifinale contro la Svezia; venne sostituito per ragioni tecniche il terzino di posizione titolare Koranji per fare posto a Polgar, più portato al combattimento che allo stile; uscì di squadra la mezzala goleador Toldi e con la sua maglia giocò l'altro interno Vincze (con Zsengeller spostato a sinistra), sensibilmente migliore del collega nelle fasi di raccordo e copertura. 
Arbitro designato fu Georges Capdeville: un omaggio ai francesi, splendidi anfitrioni durante tutto il corso del Mondiale. Cosci delle proprie capacità, gli Azzurri si gettano immediatamente all'attacco, minacciando più volte la porta custodita da Szabo. Già al sesto minuto l'Italia passa in vantaggio: la manovra si snoda partendo da Serantoni, che raccoglie un pallone qualche metro dietro la linea mediana del campo, si libera di un avversario e appoggia su Biavati. Questi si guarda attorno e opta per invitante lancio sulla destra a Piola: il centravanti, leggermente decentrato, crossa lungo per Colaussi che sta arrivando di gran carriera dalle retrovie. La botta al volo dell'ala giuliana, secca e precisa, non perdona. 

Una delle due reti di Piola

Trascorrono solo due minuti e i magiari pareggiano. Su una doppia respinta di testa dall'interno dell'area si avventa "Giurka" Sarosi, che penetra nei sedici metri ma si allunga un po' troppo la sfera che finisce sui piedi di Andreolo. Il rinvio dell'oriundo è sbilenco e mette in condizione Zsengeller di battere a rete di prima intenzione. Anche il suo tiro, però, risulta impreciso, ma si trasforma in una specie di traversone che Foni sfiora di testa. Il pallone cade proprio davanti a Titkos che non si fa pregare due volte per sferrare un poderoso diagonale su cui Olivieri nulla può. Come niente fosse, la squadra azzurra riprende a imporre il proprio gioco: Piola colpisce un palo correggendo una corta respinta di Szabo su ciabattata di Giovanni Ferrari e al 16' l'orchestra azzurra sfodera la più bella ed entusiasmante tessitura apprezzata in questo Mondiale. Biavati affonda sulla sinistra, tenta un cross alto ma il pallone rasoterra finisce fra i piedi di Piola. Questi tocca a Ferrari che, a non più di sette-otto metri dalla porta preferisce non tirare e riapre sulla destra, dove sta accorrendo Andreolo. Il quale scarta un paio di avversari in dribbling e rimette al centro per Piola: liberissimo, egli ha tutto il tempo stoppate e silurare all'incrocio dei pali. Una lunghissima manovra dentro l'area senza che nessun magiaro sia riuscito a toccare la sfera! Diciannove minuti più tardi la partita sembra giungere alla svolta decisiva: Colaussi si fionda sulla sinistra, ingaggia uno stupendo duello in velocità con un avversario e, giunto all'interno dell'area, lascia partire un destraccio a effetto che inganna Szabo. 
La ripresa si apre ancora nel segno dell'Italia: Biavati colpisce un secondo palo con la complicità del portiere ungherese, ma al 25' i danubiani imbastiscono una bellissima azione conclusa da Sarosi con una bordata imparabile dal limite che frutta il 2-3. La partita è comunque saldamente in mano ai nostri, che sanciscono la netta superiorità dimostrata dieci minuti dopo con il quarto gol, secondo personale di Piola, che raccoglie un centro teso di Biavati (ancora lui!) e infila l'angolino basso. È l'apoteosi: rispetto a quattro anni prima, l'Italia dimostra di non aver bisogno del nerbo costituito dagli oriundi (solamente Andreolo non è nato in Italia) e convince tutti con il bel gioco e la tecnica. La bacheca della Figc si arricchisce di una seconda Coppa del Mondo: nessuno lo può immaginare, ma quello rimarrà il titolo più "lungo" della storia. Quattordici mesi dopo le truppe hitleriane travolgono il confine polacco e scatenano la Seconda Guerra Mondiale. la manifestazione, come tutte le altre competizioni sportive, cade nell'oblio. Si ripresenterà dodici anni dopo, con un altro nome, quello più meritato: Coppa Rimet.



Il capocannoniere - Leonidas, diamante nero


Una delle tante rovesciate di Leonidas, il suo pezzo forte



La sua stella salì allo zenit proprio nel momento in cui il bomber dagli occhi azzurri, Arthur Friedenreich, conosceva la tristezza della parabola discentente. Ai suoi tempi, il Brasile poté far conto su tre idoli: il neodittatore Getulio Vargas, il poeta Orlando Silva e lui medesimo, Leonidas da Silva, un moretto umile di nascita e di costumi. Crebbe nel quartiere di São Cristovão, a Rio de Janeiro. Fin da ragazzino dimostra di amare il pallone dedicandosi all'attività tradizionale dei giovincelli cariocas: il futebol di spiaggia. Di fronte a casa sua, in Fonseca Lima, c'è la sede di una squadretta rionale, in cui si incorpora prima di passare al São Cristovão, settore giovanile. Si trasferisce poi al Barroso, al Sul Americano e al Sirio Libanes, dove si esibisce anche come giocatore di basket grazie alla sua formidabile elevazione. Viene quindi ingaggiato dal Bonsuccesso, (per due anni) ed è da qui che si innalza la sua fama. 
Nel 1932, a diciannove anni, viene selezionato per la Seleção che deve disputare in Uruguay la Copa Rio Branco. Gli emissari del Penarol di Montevideo lo notano e lo vogliono con loro a tutti i costi: con la casacca giallonera gioca solamente sedici partite tra maggior novembre del 1933, mettendo a segno undici reti. Un infortunio a una rotula lo tiene fermo per qualche mese prima che si ripresenti in Brasile. Entra nel Vasco e successivamente passa al Botafogo. Di lì, quindi, al Flamengo: è con la maglia rossonera che ottiene i maggiori successi. Si laurea campione carioca nel 1936, 1937 e 1939, condendo i titoli con il trono di capocannoniere conquistato nel 1938, 1939 e 1940 (43 gol in quest'ultimo anno). È la sua grande stagione: al Mondiale del 1938 ottiene la palma di "melhor artilhero" con otto reti prima di andare a guadagnare un po' di valuta la Boca Juniors, che lo paga profumatamente. Ma a Buenos Aires soffre di saudade, soprattutto d'inverno: il freddo gli è inviso e sul Rio de la Plata non resiste più di qualche mese. 
Torna in patria, questa volta a San Paolo: e con il club principale della città è "pentacampeão" paulista 1943-1945-1946-1948-1949. All'annuncio del suo rientro, ottomila nuovi soci staccano la tessera del club e al match del suo debutto il botteghino registra la bellezza di 72.218 paganti. Torna in Nazionale, ma ne esce ben presto per un equivoco con il selezionatore Flavio Costa: termina la carriera con 25 reti in altrettante presenze in aurifere. Abbandona nel 1950, a trentasette anni, con qualche acciacco di troppo. Lo avevano soprannominato "homen de borracha" (l'uomo di gomma) per la sua capacità di assorbire i colpi degli avversari, ma fu anche "Diamante preto" (il diamante nero) e "l'uomo che gioca con la Bibbia del calcio sotto il braccio". Appese le scarpe al chiodo, si affermò nel giornalismo, diventando presto commentatore della radio panamericana e di una televisione paulista. È morto il 24 gennaio 2004.                                 

I RISULTATI

Ottavi di finale

4-6-1938 - Parigi
Svizzera-Germania 1-1 dts
29' Gauchel (G), 43' Abegglen III (S)
9-6-1938 - Parigi (ripetizione)
Svizzera-Germania 4-2
8' Hahnemann (G), 22' Lörtscher (S) aut., 41' Walaschek (S), 64' Bickel (S), 75' e 78' Abegglen III (S) 
5-6-1938 - Tolosa
Cuba-Romania 3-3 dts 
38' Covaci (R), 42' Socorro (C), 59' Baratki (R), 88' Maquina (C), 98' Dabay (R), 101' Maquina (C)
9-6-1938 - Tolosa (ripetizione)
Cuba-Romania 2-1
9' Dobay (R), 65' Tunas (C), 80' Sosa (C)
5-6-1938 - Le Havre
Cecoslovacchia-Olanda 3-0
96' Kostalek, 111' Nejedly, 119' Zeman
5-6-1938 - Parigi
Francia-Belgio 3-2
1' Veinante (F), 12' Nicolas (F), 38' Isemborghs (B), 69' Nicolas (F)
5-6-1938
Ungheria-Indie Olandesi 6-0
18' Kohut, 23' Toldi, 28' Sarosi, 35' e 52' Zsengeller, 77' Toldi
5-6-1938 - Strasburgo
Brasile-Polonia 6-5 dts
18' Leonidas (B), 22' Wilimowski (P) rig., 25' Romeu (B), 44' Peracio (B), 50' F. Scherfke (P), 59' Wilimowski (P), 72' Peracio (B), 88' Wilimowski (P), 93' e 102' Leonidas (B), 107' Wilimowski (P)
5-6-1938 - Marsiglia
Italia-Norvegia 2-1 dts
2' Ferraris II (I), 83' Brustad (N), 94' Piola (I)
Svezia-Austria non disputata
qualificata la Svezia per rinuncia dell'Austria

Quarti di finale


Meazza stringe la mano al capitano della Francia Mattler

12-6-1938 - Parigi
Italia-Francia 3-1
9' Colaussi (I), 10' Heisserer (F), 52' e 72' Piola (I)
12-6-1938 - Antibes
Svezia-Cuba 8-0
15' H. Andersson, 32' Nyberg, 34', 41' e 52' Wetterström, 54' H. Andersson, 60' Nyberg, 89' Wetterström 
12-6-1938 - Lilla
Ungheria-Svizzera 2-0
42' Sarosi, 68' Zsebgeller
12-6-1938 - Bordeaux
Brasile-Cecoslovacchia 1-1 dts
30' Leonidas (B), 64' Nejedly (C) rig. 
14-6-1938 - Bordeaux (ripetizione)
Brasile-Cecoslovacchia 2-1
30' Kopecky (C), 56' Leonidas (B), 63' Roberto (B)  

Semifinali


I capitani di Italia (Meazza) e Brasile prima del match

16-6-1938 - Parigi
Ungheria-Svezia 5-1
4' pt Nyberg (S), 18' Eriksson (S) aut., 26' Titkos (U), 38' Zsengeller (U), 61' Sarosi (U), 77' Zsengeller (U) 
16-6-1938 - Marsiglia
Italia-Brasile 2-1
55' Colaussi (I), 60' Meazza (I) rig., 87' Romeu (B)  

Finale 

19-6-1938 - Parigi
Italia-Ungheria 4-2
Italia: Olivieri, Foni, Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli, Biavati, Meazza, Piola, Ferrari, Colaussi.
Ungheria: Szabo, Polgar, Biro, Szalay, Szücs, Lazar, Sas, Vincze, Sarosi, Zsengeller, Titkos.
Arbitro: Capdeville (Francia). 
Reti: 5' Colaussi (I), 7' Titkos (U), 16' Piola (I), 35' Colaussi (I), 70' Sarosi (U), 82' Piola (I).

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