Obiettivo calcio

Obiettivo calcio

giovedì 25 novembre 2010

Vivai: ecco la ricetta di Sacchi. Sono d'accordo, però...

In una recente intervista rilasciata a Francesco Caremani per il Calcio Illustrato, rivista ufficiale della Lega Nazionale Dilettanti (www.ilcalcioillustrato.it), il nuovo coordinatore della nazionali giovanili, Arrigo Sacchi, detta linea per rilanciare il nostro calcio dalla base, ovvero dai settori giovanili.
Cinque i punti in cui si può riassumere il Sacchi-Pensiero: 1) educare il pubblico a chiedere la vittoria attraverso il bel gioco; 2) formare i tecnici dei settori giovanili perché diventino maestri oltre che allenatori; 3) stimolare i dirigenti a investire sulla crescita dei propri giovani prima che sul risultato; 4) sviluppare negli atleti più giovani la componente tecnica prima di quella tattica; 5) favorire la ricerca di talenti monitorando anche il mondo dilettantistico.
Vista l'autorevolezza dell'intervento e la cattedra da cui proviene, credo valga la pena soffermarsi sul progetto. Un'analisi costruttiva, mixando le mie esperienze di giornalista e di dirigente, per individuare i pregi ma nello stesso tempo pure le criticità del discorso dell'ex citì azzurro.
Parto dall'ultimo punto. Che va in una direzione quantomeno innovativa. Sbagliato sperare che il calcio di vertice (intendo professionistico) si autorigeneri in proprio, quasi per miracolo, ignorando il terreno in cui affonda le radici. Ovvero l'ampia base dilettantistica, le migliaia di piccole-gradi società che fanno attività sul territorio, in maniera capillare: introducendo i bambini al calcio; educandoli ai gesti tecnici, alle regole del gioco, al rispetto e alla cura del proprio corpo; valorizzando i concetti di lealtà e sportività; e, di fatto, avviando in modo graduale una prima selezione in relazione alle qualità e alle attitudini personali dei soggetti coinvolti. Fondamentale, quindi, monitorare il mondo dilettantistico. Badando, però, di non soffermarsi solo sulla ricerca del talento. Ma cercando di andare più a fondo. Per verificare modi di lavoro, competenze dirigenziali, preparazione dei quadri tecnici, adeguatezza e sicurezza delle strutture. A oggi, bando alle ipocrisie, il raccordo fra vertice (inteso come Federcalcio) e periferia è debolissimo. Resistono poteri e privilegi locali consolidati, difficili da scardinare. Tanta burocrazia (decine di carte e documenti per una banale iscrizione o per un tesseramento), ma poco controllo effettivo su quello che avviene in campo.
E qui si innestano almeno altri tre punti indicati da Sacchi. Che si possono riassumere in un unico slogan: in un settore giovanile tutti, dai dirigenti agli allenatori, devono mettersi al servizio del ragazzo. Quasi sempre, invece, accade il contrario. Partiamo dai dirigenti. O presunti tali, in quanto l'impreparazione e l'approccio squisitamente "affaristico" di certi personaggi fa rabbrividire. Investimenti? Ma dove, ma quando... Semmai è caccia alle quote da far pagare alle famiglie (sempre più salate, visti i tempi di vacche magre), mentre le segreterie si sono ormai trasformate in veri e propri spacci di abbigliamento e materiale sportivo, dove dietro il cosiddetto kit (borsa, tuta, magliette e pantaloncini da allenamento, felpe, giacconi e chi più ne ha più ne metta) si nasconde un colossale affare (non si sa fino a che punto documentato...) per aziende, rivendite specializzate e gli stessi club. Condividere attraverso il calcio, insieme a scuola e famiglia, la missione educativa? Forse (ho detto forse, non ci allarghiamo) in un secondo momento. Prima c'è da vincere il campionato, da battere la squadretta del comune o del quartiere limitrofo, da segnalare al selezionatore regionale di categoria i due o tre gioiellini di casa: perché un paio di passaggi in rappresentativa (come in televisione) possono portare all'interessamento di un club professionistico e quindi a un lauto premio-preparazione. Ecco a cosa pensano i dirigenti.
La scelta degli allenatori avviene di conseguenza. Maestri, istruttori, educatori? Robetta da educande. Cura della tecnica? Ma quando mai. Mirare dritto ai garetti dell'avversario, palla avanti e pedalare e sull'1-0 a nostro favore, pallone in tribuna. Altro che finezze. E appena l'avversario ti sfiora, resta in terra almeno cinque minuti per perdere più tempo possibile. Costi quel che costi, la società vuole che si conservi almeno il posto nel campionato regionale. Sennò i ragazzi vanno a giocare altrove e addio quote.
Ultimo input di Sacchi. Educare il pubblico al raggiungimento della vittoria attraverso il bel gioco. Obiettivo condivisibile, in presenza di una diffusa cultura sportiva. Ma viste le premesse di cui sopra, la mission diventa impossibile o quasi. Per rendercene conto, basta frequentare alla domenica mattina un qualsiasi campetto di periferia. Dove mamme, papà e nonni invasati (gli unici per i quali servirebbe davvero la tessera del tifoso...) aizzano i propri "Tatoni" a gettare la maschera dei "bravi bimbi" e a trasformarsi in belve inferocite a caccia dei tre punti. In quale modo il pallone varchi la fatidica linea di porta, a loro (come a tanti dirigenti e allenatori) poco importa. Tre passaggi dietro fila? Inutile perdita di tempo. E se poi quel "cornuto dell'arbitro", anziché fischiarci contro (perché l'arbitro, per la famiglia, è sempre "contro" a prescindere), decide di regalarci un rigore (sì, regalarci: troppo semplice fischiare quelli che ci sono), vorrà dire che avrà fatto solo il proprio dovere, rimediando a una sfilza inenarrabile di errori.
Ecco, caro Arrigo. Altro che Serie A. Questo è il nostro "vero" calcio. Cambiarlo è doveroso. Riuscirci è un altro discorso. Buona fortuna. Di cuore.

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